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AUDIZIONE COMMISSIONE GIUSTIZIA DEL SENATO - MARTEDI' 13 GENNAIO 2015 -
INTERVENTO DELL'AVV. GIANFRANCO AMATO PRESIDENTE DELL'ASSOCIAZIONE ''GIURISTI PER LA VITA''
Signor Presidente,
Onorevoli Senatori,
prima di rassegnare alcune considerazioni in merito allo schema di Testo
Unificato recante ''Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello
stesso sesso e disciplina delle convivenze'', mi corre l'obbligo di formulare un
sincero ringraziamento per l'invito rivolto all'associazione Giuristi per la
Vita di partecipare all'odierna audizione.
Noi riteniamo che qualunque seria discussione nella delicata materia trattata
dal Testo Unificato non possa prescindere dal dettato costituzionale.
Come voi ben sapete, l'art. 29 della costituzione della Costituzione stabilisce
che ''La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale
fondata sul matrimonio''. Il verbo ''riconosce'' riveste un significato assai
importante in questo contesto, rilevando che lo Stato si limita a ''prendere
atto'' di un dato oggettivo di natura. Non si dice che la Repubblica
''istituisce'' la famiglia - perché se così fosse avrebbe diritto a porre tutte
le modifiche ritenute opportune -, ma che ''riconosce'' quell'istituto. In questo
senso la famiglia viene definita una elemento prepolitico e pregiuridico,
essendo sottratta alla disponibilità dell'ordinamento giuridico.
V'è un dato storico interessante, in questo senso. La famiglia entra a far
parte dei documenti giuridici nazionali ed internazionali soltanto dopo un
particolare momento storico: la seconda guerra mondiale. L'esperienza, allora,
dimostrò come nello tsunami devastante della tragedia bellica, la famiglia
fosse stata l'unica cosa che avesse retto a livello sociale, in un quadro
complessivo di disgregazione anche sul piano istituzionale. Basti pensare a
cosa è stato l'8 settembre 1943 per il nostro Paese. Ecco che, quindi, proprio
alla luce di quell'evidenza, si ritenne di dover tributare alla famiglia il
giusto riconoscimento, di prendere atto della sua fondamentale importanza e di
tutelarne la delicata funzione. Per questa ragione oltre che nella
Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo del 1948, l'importanza della
famiglia verrà riconosciuta dalle maggiori costituzioni europee, da quella
tedesca fino alla nostra (lo Statuto Albertino, infatti, non faceva alcun cenno
alla famiglia, proprio perché considerata elemento naturale prepolitico e
pregiuridico).
Prendere atto, però, non significa, come abbiamo visto, istituire.
Onorevoli senatori, noi abbiamo voluto approfondire questo particolare aspetto
attraverso un'attenta esegesi dei lavori preparatori della nostra Costituzione
e del relativo dibattito assembleare, partendo proprio dalla ''società
naturale'', perché in essa risiede il nocciolo della questione.
Lo spazio di tempo a disposizione ha consentito soltanto di limitare le
citazioni a tre interventi: le dichiarazioni di voto degli onorevoli Moro, La
Pira e Mortati. Il primo affermò quanto segue: ''Dichiarando che la famiglia è
una società naturale si intende stabilire che la famiglia ha una sua sfera di
ordinamento autonomo nei confronti dello Stato, il quale, quando interviene, si
trova di fronte a una realtà che non può menomare né mutare''. Il secondo, La
Pira, precisò che ''con l'espressione società naturale si intende un ordinamento
di diritto naturale che esige una costituzione e una finalità secondo il tipo
della organizzazione familiare''. Il terzo, Mortati, volle precisare il
carattere normativo della definizione di famiglia come società naturale,
dichiarando che ''con essa si vuole, infatti, assegnare all'istituto familiare
una sua autonomia originaria, destinata a circoscrivere i poteri del futuro
legislatore in ordine alla sua regolamentazione''.
Poche furono le voci critiche rispetto a quella formula, e solo perché le
attribuirono una portata meramente definitoria. L'on. Ruggiero, per esempio,
rilevò che la Costituzione non doveva dare definizioni degli istituti, e che il
progetto non ne dava alcuna, tranne che per la famiglia. Nel suo ragionamento
fu interrotto dall'on. Moro interruppe, che lo fulminò con queste parole: ''Non
è una definizione, è una determinazione di limiti''. Con quelle tre parole,
espressione dell'indiscutibile intelligenza di un uomo come Aldo Moro, in
maniera sintetica ed efficace fu riprodotto il pensiero della maggioranza
dell'Assemblea, che volle infatti mantenere la formula ''società naturale''.
Ora, a noi pare che il contenuto normativo dello schema di Testo Unificato,
così come attualmente formulato, travalichi decisamente i limiti posti dai
Padri costituenti. Si sta, infatti, addirittura introducendo una nuova forma di
famiglia, composta tra persone dello stesso sesso, attraverso la modifica
dell'istituto del matrimonio.
Sì, perché, al di là di ogni risibile velo d'ipocrisia, questo disegno di legge
introduce di fatto il matrimonio gay. Non è una questione nominalistica ma
sostanziale. Non conta il ''nomen juris'' che si attribuisce a questo nuovo
istituto - lo si chiami come si vuole - ma la sua reale natura.
E per comprendere quale sia tale natura è sufficiente una media conoscenza
della lingua italiana.
L'art. 3, primo comma, ad esempio, ci dice che ''ad ogni effetto, all'unione
civile si applicano tutte le disposizioni di legge previste per il matrimonio'',
con la sola eccezione dell'adozione. Quest'ultimo inciso, peraltro, temiamo non
sia destinato ad avere vita lunga. Sarà pressoché inevitabile un intervento
della Corte Costituzionale volto ad eliminarlo, sulla base dell'assunto per cui
''come rilevato da recente giurisprudenza di legittimità, in assenza di certezze
scientifiche o dati di esperienza, costituisce mero pregiudizio la convinzione
che sia dannoso per l'equilibrato sviluppo del bambino il fatto di vivere in
una famiglia incentrata su una coppia omosessuale''. Tribunale dei Minori di
Bologna docet! Per capire che siamo in presenza di un matrimonio a tutti gli
effetti è sufficiente, poi, continuare la lettura dello stesso art.3, al
secondo comma, laddove si specifica che ''la parte dell'unione civile tra
persone dello stesso sesso è familiare dell'altra parte ed è equiparata al
coniuge per ogni effetto'', e anche al terzo comma, in cui si precisa che le
parole ''coniuge'', ''marito'' e ''moglie'', ovunque ricorrano nelle leggi, decreti e
regolamenti, si intendono riferite anche alla parte della unione civile tra
persone dello stesso sesso''. Potremmo continuare con l'art. 4 che estende i
diritti alla successione legittima del coniuge alla parte legata al defunto da
un'unione civile tra persone dello stesso sesso, oppure con l'art.2, secondo
comma, il quale prevede che ''le parti dell'unione civile tra persone dello
stesso sesso stabiliscono il cognome della famiglia scegliendolo tra i loro
cognomi'' (si afferma quindi che sono una ''famiglia''), arrivando a precisare che
il cognome scelto ''è conservato durante lo stato vedovile''. Quest'ultima espressione,
peraltro, qualora vi fossero stati dubbi, pare chiudere definitivamente la
questione sulla natura di vero e proprio matrimonio che ha la cosiddetta
''unione''.
Questa è una nuova forma di famiglia ma non è la famiglia prevista dalla
Costituzione.
Un inciso di carattere giuridico. Qual è il fondamento su cui si basa questa
''unione civile'' tra persone dello stesso sesso? La risposta la dà il secondo
comma dell'art.1: ''il reciproco vincolo affettivo''. Ho confessato ai senatori
che quando ho letto questa espressione non ho potuto fare a meno di tornare con
la mente a trentatré anni fai, quando ciò dovetti affrontare all'Università
Cattolica del Sacro Cuore di Milano l'incubo di tutti gli studenti di
giurisprudenza: l'esame di diritto privato.
Ricordo ancora quella prova, e ricordo benissimo che una domanda verteva sul
concetto di rapporto giuridico. Mi si chiedeva quale fosse la differenza tra
rapporto giuridico e rapporto giuridicamente irrilevante, ossia perché il
diritto non si doveva occupare di rapporti quali l'amicizia, l'affetto, il
sentimento, la cortesia. Il mio esaminatore, che era particolarmente colto, mi
spiegò perché il legislatore ''non può il libito far licito in sua legge'',
citando il Sommo Poeta in un celebre passo dell'Inferno. Altri tempi, qualcuno
dirà, quando il diritto era una cosa seria.
Non mi pare, però, che oggi le cose siano cambiate, per cui delle due l'una: o
si aggiornano i manuali di diritto, o le leggi si adeguano al diritto. C'è una
terza alternativa: che il diritto si trasformi in desiderio e fantasia.
Tornando alle cose serie, onorevoli Senatori, noi riteniamo convintamente che
qualunque tipo di modifica si intenda fare in ordine alla famiglia, non può non
avvenire solo nell'alveo del dettato costituzionale. Dobbiamo capire, peraltro,
se siamo ancora inserito nella tradizione culturale, giuridica e di civiltà dei
Padri costituenti, oppure no. Se così non è, allora quello che occorre fare è
semplice, basta modificare l'art.29. Ad esempio in questo modo: ''La Repubblica
istituisce la famiglia, definendone la natura, le funzioni, i relativi diritti
e doveri''. A quel punto il parlamento può fare tutto. Che so, stabilire che
cinque donne tutte unite da un ''reciproco vincolo affettivo'' possano formare
una nuova forma di famiglia. Ma, vivaddio, non si può dire che questa fosse
l'idea di famiglia che avevano Togliatti, De Gasperi, Nenni, e tutti i Padri
costituenti. Sono cambiati i tempi, benissimo allora cambiamo la Costituzione.
Tra l'altro, vista la portata delle implicazioni non solo di carattere
sociologico ma addirittura antropologico di queste modiche giuridiche, il luogo
più idoneo per affrontarle è proprio quello della sede costituzionale. Solo in
un dibattito di alto livello istituzionale e con un adeguato profilo culturale
si possono assumere decisione destinate a segnare il futuro della nostra
civiltà.
Quello che, invece, non si può e non si deve fare, onorevoli Senatori, è
tentare una rivoluzione antropologia attraverso un uso surrettizio e
fraudolento della norma. Concludo permettendomi di citare un fatto personale.
Il 10 ottobre 2014 sono stato invitato come relatore ad un convegno organizzato
dall'Ordine degli Avvocati di Roma, nell'ambito delle iniziative per la
formazione professionale dei legali. Il titolo di quell'evento era ''Matrimoni
Adozioni tra tutela dell'infanzia e parità dei diritti civili''. Ritengo di
essere stato chiamato a fare da controcanto alla vulgata politically correct su
quei temi. In quell'occasione ho avuto un sussulto d'inquietudine quando ho
ascoltato questo ragionamento: ''bisogna prendere atto che la nostra società non
è ancora matura su questioni come l'adozione gay o la fecondazione artificiale
per le coppie omosessuali, ma è proprio per questo che occorre introdurre delle
norme: riusciremo a far evolvere la società con la forza pedagogica delle
leggi''. Ho percepito immediatamente che qualcosa non quadrasse.
A me, infatti, è sempre stato insegnato che è la norma - in quanto strumento
finalizzato a regolare i rapporti tra i cittadini - che deve adeguarsi al
naturale evolvere della società. Non il contrario. Nessuna legge, neppure se
voluta dall'Europa, può rappresentare un parametro sociologico da raggiungere o
imporre.
Concludo. Onorevoli Senatori, non so a voi, ma a me l'utilizzo ideologico della
funzione legislativa per imporre un modello culturale alla maggioranza fa
venire i brividi!
fonte: Facebook https://www.facebook.com/difesa.vita